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Dott.ssa Alessandra Banche, Psicologa, Neuropsicologa, Psicoterapeuta Cognitivo- Comportamentale, Sessuologa, Pratictioner in EMDR.
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Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale, EMDR

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Primo colloquio con un paziente con disturbo bipolare

Posted on 15 Dicembre 201815 Dicembre 2018 by Dott.sa Alessandra Banche

Ci sono persone dal temperamento tranquillo e con uno stile di vita piuttosto stabile, da cui sappiamo cosa aspettarci e con cui è facile relazionarsi. Al contrario, ci sono persone  (e tutti noi ne abbiamo in mente almeno una!) con cui non è così semplice rapportarsi perché si comportano con gli altri a seconda dell’umore che hanno. Questa  caratteristica, se si presenta in modo eccessivo viene considerata una vera e propria patologia psichiatrica chiamata “disturbo bipolare”.

I disturbi bipolari sono così chiamati per il presentarsi, nella stessa persona, di episodi depressivi ed episodi maniacali. Gli stati di umore opposti si alternano, il passaggio dall’uno all’altro può essere repentino, oppure avvenire nel lungo periodo con intervalli di tranquillità.

Quando il paziente è in fase depressiva si sente molto triste, parla poco, non ha appetito… insomma presenta tutte le caratteristiche di una persona depressa, di cui ho già scritto in altri articoli presenti sul sito. Invece, quando si manifesta la sintomatologia maniacale, egli diventa euforico, nervoso, agitato, non sente il bisogno di dormire perché ha molti progetti da realizzare. Vi possono essere presenti deliri, i più comuni sono deliri genealogici (si è convinti di discendere da famiglie illustri), scientifici (si pensa di avere fatto importanti scoperte), religiosi (ci si identifica con una divinità, o si comunica con essa in via preferenziale) o erotomanici (ci si sente amati da persone illustri).

I disturbi bipolari sono malattie con una forte componente biologica, i fattori genetici hanno cruciale importanza nella trasmissione della malattia.

Gli interventi più efficaci sono dati dalla combinazione di farmaci e psicoterapia. I pazienti in fase maniacale non riescono a trarre alcun beneficio dalla psicoterapia fino a quando non sono sotto controllo farmacologico per la tendenza a negare qualunque difficoltà psicologica.

Nello studio di uno psicoterapeuta perciò è raro che arrivi una persona di questo tipo a chiedere aiuto se è in momenti in cui l’umore è molto elevato, perché si sente molto bene. Piuttosto, questi pazienti chiedono aiuto spontaneamente quando sentono che sta per iniziare un periodo di depressione, che loro non tollerano. Qualche mese fa è arrivato da me per un trattamento una persona di questo tipo. Ricordo che il primo incontro mi ha spiazzata parecchio. Appena entrato nel mio studio, il paziente ha iniziato a trattarmi con grande superiorità, la prima cosa che mi ha detto è stata questa: “Vede, Alessandra (notare la confidenza che si è subito preso!), mentre stavo venendo da lei, mi sono chiesto: ma io cosa ci vado a fare da Alessandra? Non credo proprio che lei sia in grado di fare nulla per me, perché io sono già stato da molti psicologi, alcuni bravi, altri meno, e potrei tranquillamente sedermi lì al suo posto ed insegnarle io delle cose”. Non ho potuto fare altro che chiedergli di andare avanti e farmi capire cosa gli era capitato, dato che, in fin dei conti, si era disturbato a venire da me. Ha perciò iniziato ad elencarmi i medici da cui si era recato (tra di essi, vi erano molti nomi illustri), terapie che aveva provato (alcune valide, altre per nulla). Quindi, ha proseguito nel dirmi che la sua vita era perfetta, perché aveva un lavoro molto ben remunerato, una vita agiata, una moglie che lo adorava ed un figlio educato, numerosi amici, ma tutte queste persone erano inferiori a lui e lo annoiavano moltissimo. Aveva pure provato ad avere un’amante, ma pure lei lo annoiava! Il suo problema era che non si sentiva felice, iniziava a sentire quello che lui chiamava “male di vivere”. Gli psichiatri da cui era stato gli avevano consigliato una terapia piuttosto forte e si erano raccomandati di seguire la cura per tutta la vita, ma lui questo lo aveva rifiutato, perché, ovviamente, ne sapeva più lui di loro. Al colloquio rifiutava di dirmi che diagnosi gli avevano fatto, anche se a me diventava sempre più evidente, e sosteneva che il suo problema era il male di vivere, la noia, a volte l’insonnia. Mi sfidava perché voleva vedere se io potevo fare meglio degli altri. Umilmente, gli ho proposto che, se gli era piaciuto parlare con me, poteva tornare una seconda volta per provare a lavorare sul suo disturbo con dei metodi nuovi, che ancora non aveva sperimentato. Lui ha accettato, quasi per farmi un favore.

Il giorno del nostro secondo appuntamento non si è presentato. Mi ha scritto per spiegarmi come stavano davvero i fatti: si era dovuto ricoverare in clinica in quanto la situazione era diventata insostenibile, gli dispiaceva di non potere proseguire la terapia, ma per ora non poteva fare altrimenti. In quel breve scritto mi sembrava finalmente sincero, spogliato da quel senso di onnipotenza che ancora lo avvolgeva quando, pochi giorni prima, è venuto a fare il suo primo colloquio.

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