Possiamo definire la vertigine come la spiacevole sensazione di “avere la testa che gira”. Quando si ha una vertigine si ha una distorsione della percezione sensoriale perché tutte le cose intorno a noi sembrano instabili, e noi stessi percepiamo i nostri movimenti in modo distorto. Certe volte ci può sembrare di perdere l’equilibrio e di cadere. Le vertigini sono davvero molto fastidiose, e non sempre è facile trovare la cura giusta, perché non è semplice scoprirne la causa.
Tra le cause più comuni, ci possono essere malattie vascolari, ipertensione, otite, traumi cranici, compressioni del nervo vestibolare.
Nella maggior parte dei casi, la malattia che induce la vertigine è localizzata nell’orecchio, dato che è un organo anche impiegato al mantenimento dell’equilibrio.
Gli specialisti indicati per questo tipo di problemi possono essere l’otorino, il neurologo, il fisioterapista. Accade però che, in alcuni casi di vertigine, non venga riscontrata alcuna causa organica, ma questo fastidioso sintomo nasconda invece una sofferenza emotiva e per questo viene consigliato l’intervento di uno psicoterapeuta.
La storia di Anna
In questo articolo vorrei raccontarvi la storia di Anna, una mia paziente che per tanto tempo ha dovuto sopportare delle fastidiose vertigini.
Anna è una bella signora, di poco più di quarant’anni, fa l’impiegata, è sposata e ha un figlio che va all’università. La paziente, circa quattro anni fa, perde la madre, malata da tempo. La mamma di Anna ha trascorso gli ultimi mesi di vita in una clinica, per via del suo grave quadro clinico. Anna andava a trovarla ogni giorno, ma nonostante questo aveva la sensazione di avere abbandonato sua madre e si sentiva molto in colpa.
Dopo la morte della mamma la vita quotidiana della donna va avanti: lavora, si dedica alla famiglia ed ai propri interessi, ma non è serena perché pensa spesso alla mamma. Si sente non capita dal marito e dal figlio: a lei sembra che i famigliari non accolgano il suo dolore.
Inizia ad isolarsi sperando che i suoi silenzi vengano interpretati come una richiesta di aiuto, ma questo non avviene. Dopo oltre un anno dalla morte della mamma, Anna inizia ad avere dei capogiri, che sono sempre più fastidiosi.
Anna si sente a disagio, teme di poter perdere l’equilibrio e di cadere, così inizia ad evitare i luoghi affollati o, secondo lei, pericolosi per il suo equilibrio. Va in confusione quando è negli spazi grandi, ha la sensazione di non controllare le gambe. Certe volte si spaventa, sperimentando tachicardia e la sensazione di avere il respiro corto. Rinuncia alle passeggiate in montagna con gli amici, alla palestra, non pranza più in mensa con i colleghi perché è un luogo per lei troppo affollato.
Nonostante tutti questi accorgimenti le vertigini persistono: si presentano tutti i giorni per due anni. Nel frattempo Anna si reca dall’otorino, dal neurologo e dall’oculista, ma dagli esami da loro prescritti non emerge mai una causa fisica. Si reca in una clinica specializzata nella cura delle vertigini, ma qui le viene diagnosticata ansia, e non un problema di tipo fisico.
La cura psicologica
Anna accetta di fare dei colloqui di sostegno con la psicologa, e delle sedute di rilassamento, motivata a guarire da questo fastidioso sintomo. Alla fine del trattamento è ancora più scoraggiata, perché non ha ottenuto alcun risultato. In clinica, capendo la sua situazione, ipotizzano che la causa di tutto sia la perdita della mamma, il cui dolore non è ancora stato superato da Anna. Le consigliano di seguire una terapia che possa aiutarla in breve tempo ad elaborare questo trauma legato alla perdita.
L’elaborazione di un trauma
Dopo questa trafila Anna arriva da me, motivata a guarire, ma allo stesso tempo un po’ diffidente: non è mai stata da uno psicoterapeuta, e teme che parlare della sua sofferenza possa essere troppo angosciante, ma decide di darmi la possibilità di aiutarla.
In poche sedute Anna ripercorre la sofferenza degli ultimi anni e riesce a capire che il suo sintomo non è tanto legato alla perdita della mamma, che accetta, ma piuttosto alla rabbia nei confronti di suo marito e suo figlio, da cui si è sentita abbandonata in un momento per lei molto delicato. Avrebbe desiderato ricevere più attenzioni, ma il suo isolamento ha invece portato al risultato opposto: marito e figlio hanno pensato che Anna preferisse stare sola nei momenti di tristezza, mentre non hanno mai dato importanza alle sue vertigini, sapendo che non erano originate da malattie organiche (quindi non la percepivano malata).
Anna riesce a capire che è il suo atteggiamento di chiusura che mantiene la sua tristezza ed il suo sintomo, ed inizia perciò a ricercare il dialogo in famiglia. Marito e figlio, appena percepiscono il cambiamento di Anna, sono subito molto disponibili nei suoi confronti e la rabbia della paziente non ha più motivo di esistere. Improvvisamente, le vertigini scompaiono.